Da 15 ore so che sono positiva al Covid ed è stato un po’ come il gatto di Schrödinger, fino a che non lo sai davvero chissà se il gatto è morto o è ancora vivo e quindi c’è quel momento in cui speri di essere negativa ma sei già positiva e il mondo in questa dualità mista potrebbe confondersi, implodere, sta finendo, finisce, era tutto qui, non.
I vicini di fronte sono andati via. È una bella notizia. Lei parlava di continuo al telefono con tutta la parentela in un dialetto acutissimo nord africano, finestre spalancate, cuffiette nelle orecchie, mentre puliva generosamente gli angoli del bagno e dava la ricetta del giorno. Lui ascoltava musica di dubbio gusto fino a notte tarda, una Nicki Minaj senza capelli in pantaloncini e ciabatte da spiaggia. La vicina del terzo piano gli urlava abbassa e lui smetteva ma solo per 5 minuti e poi ripartiva inchallah.
Il postino arriva fino al quarto piano per portarci i pacchi poi è stanco anche lui e ci vorrebbe un pit-stop, un succo di frutta, una canzone della Carrà per fargli sentire che non tutto è perduto.
Con i vicini del palazzo abbiamo passato l’estate a fare tre aperitivi a settimana nella corte interna. I francesi sono così, bastano 5 mq dove stare in 24 per fare festa, come basta un marciapiede bordo canale per buttarsi per terra e fare picnic, festa, serata. In Italia siamo più formali, nel senso di più attenti alla forma, non organizzeremo mai un aperitivo accanto ai bidoni della spazzatura e alle bici parcheggiate. Qui succede e non è neppure male.
Ho anche partecipato al mio primo vide dressing, uno svuota armadi: Laure ha venduto il suo appartamento e un pomeriggio ha fatto una festa per regalare molti dei suoi vestiti e non portarseli dietro in comodi cartoni da 53 kg l’uno. Ed ecco i brillantini, la sfilata di noi con i completi a metà, le bollicine, le piume ad agosto, l’euforia di donne che finiscono un ciclo di vita e che ne ricominciano un altro con il terrore e lo stupore che la vita sa donare con magnanimità. Mi sembrava di essere tornata in quella gioventù che non avevo mai vissuto, per due ore, una spensieratezza, come se non avessi altri propositi che quello di stare nel presente, altri problemi che quello di trovare l’abbinamento giusto per quella camicetta color caramello.
Da quasi 8 mesi dormiamo nella nuova casa e questo è il nostro primo ottobre qui anche se è il 12 (auguri Ilaria). Le sensazioni nuove si avvicendano e non ci facciamo neanche più caso, a volte si esprimono tutte insieme come i clacson in un ingorgo nel centro di Milano. Perché la consapevolezza arriva a volte con la violenza di una valanga e tu puoi solo sperare che qualcuno sopravviva per raccontare quali grandi emozioni avete provato prima del crash.
Ci siamo abituati ai nuovi gesti, abbiamo preso le misure con le dimensioni del bagno e la pressione dell’acqua della doccia, con il parquet e le linee del legno che ora conosciamo a memoria, con la vista fuori dalla finestra che diventa una televisione che trasmette il cielo 24 ore su 24 e che se ne frega sempre dei nostri sentimenti e fa il bello e il brutto tempo pure quando dentro di te è proprio l’inverso.
Cose scontate, cosa da niente, che a girarci in mezzo diventano goffe e sconclusionate. Le stesse che ci hanno permesso di arrivare fin qui: la fase dell’euforia, quella dell’ansia e della tachicardia, quella del sarà una cazzata, quella del e adesso? E poi pure quella del trasloco, di non so come si aggiusta, quella della lontananza, del nervosismo, del non doveva andare così, quella del silenzio tra di noi, quella senza piano della cucina, senza tende, con scatoloni dappertutto, quella senza corpo. Sì, per un periodo avevo anche dimenticato di avere un corpo di donna. Ero una macchina da guerra che eseguiva al meglio tutto quello che poteva nel minor tempo possibile. Nessuno spazio per una ceretta, un rituale di bellezza, un vestito che non fosse il solito maglione e un paio di jeans. Nemmeno mi guardavo allo specchio per lavarmi la faccia, ma a volte nemmeno mi ricordavo di mangiare o mangiavo solo per nutrire e avere la forza di fare di nuovo, non per piacere, non c’era posto, ero sempre altrove, in mille altre soluzioni da trovare. Sui social siamo tutti sempre giovani e belli, ma non pensare mai che ogni centimetro della mia felicità non arrivi sudata o sofferta.
[Qualche ricordo del trasloco. Matteo Pezzi, fotografo delle nostre vite]
La maggior parte delle cose che facciamo le facciamo per abitudine. E comprare una casa, ristrutturarla non era certo nei programmi, almeno non nell’immediato (pensa che tutto è nato per una questione di principio: la proprietaria della casa in cui eravamo in affitto ci ha aumentato la mensilità di 3 euro e noi indignati ci siamo detti “ma perché questi proprietari hanno sempre il coltello dalla parte del manico? Compriamocene una noi, così non dobbiamo subire le loro angherie” e fu così che ne spendemmo 640.000), eppure quando l’abbiamo iniziata l’abbiamo voluta tantissimo. A volte, per volere qualcosa, è anche necessario non volere più qualcos’altro, rifiutare, respingere, mettere in prospettiva, riattivare al momento giusto la propria volontà.
Sono stati mesi di novità da far diventare routine, di tempo dedicato alla creazione e al far funzionare, all’estro altrove, agli oggetti intorno, molto al lavoro, poco a me, poco anche a Roberto. Mi dico che riprenderemo un po’ di fiato, arriverà quel momento. In fondo ora, i giorni hanno ricominciato a fluire con una certa regolarità. Accolgo ogni sera come una sorpresa ricoperta di un involucro che deve essere violato da fili leggeri, amati, inumani e odorosi. Fili preziosi, capaci di trasformare i mostri in creature mitiche che masticano e sputano il perbenismo nascosto nelle nature morte, come chiavi di stanze imprevedibili, come trampolini sui tetti di Parigi.
Intorno a me anche stamattina, ogni cosa è illuminata.
Foto in evidenza: Giulia Russo.